Letteratura&Affettività

Se a scuola si insegnasse a leggere i grandi romanzi, non solo con un approccio didattico asettico, ma con passione e coinvolgimento, i ragazzi imparerebbero a conoscere l’animo umano in tutte le sue sfaccettature. Imparerebbero a riconoscere l’amore, la sofferenza, la gioia e la paura, emozioni che fanno parte della vita di ogni individuo. E, soprattutto, imparerebbero a gestire il dolore che inevitabilmente queste emozioni portano con sé.” Umberto Galimberti

Leggo questa affermazione del prof. Galimberti trovando conferma del mio modo di approcciarmi alla letteratura dal punto di vista didattico e personale. Mi riallaccio alla definizione di Eco del “classico” come sopravvissuto ad una selezione. Un classico ha superato lo scorrere del tempo, ma in che modo? Pura fortuna oppure ha trovato di secoli in secoli selezionatori che hanno saputo leggere, scoprire, apprezzare il messaggio che l’autore voleva promuovere? La fortuna dura poco nella vita, evidentemente quel messaggio era così potente da sopravvivere e superare la contingenza di tempi, modi di vivere, mutevoli stili e quant’altro.

Può la letteratura educare all’affettività? Far riflettere su noi e sugli altri? Aiutarci nel riconoscere e definire i sentimenti e le emozioni che proviamo e che spesso non sappiamo riconoscere?

Quante volte attendiamo (è speranza o ansia?) che arrivi quell’appuntamento fissato con quella persona? Ne “Il sabato del villaggio” Leopardi ci invitava già a godere dell’attesa, delle illusioni che la nostra mente crea nel tempo di quell’attesa

Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’ […]

Oppure quante volte, già a metà domenica iniziamo a “soffrire” al pensiero che il giorno dopo dovremo tornare al lavoro, a scuola, al “travaglio usato”?

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia                                
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno […]

E quante volte ci sentiamo insoddisfatti, ingabbiati in un ruolo che sentiamo non appartenerci più? Un po’ proprio come accade al ragionier Belluca per cui “Il treno ha fischiato” e per i personaggi pirandelliani che vorrebbero gettare la maschera.

Rosso Malpelo (G. Verga) manifesta il suo voler bene a Ranocchio picchiandolo e maltrattandolo perchè vuole insegnargli a difendersi e a sopravvivere in quel mondo crudele e prevaricatore

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: – To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!

Se ad una lettura superficiale Rosso Malpelo da vittima può sembrare trasformato in aguzzino – bullo? – ecco che il suo trascorso familiare e la durezza dell’ambiente in cui vive ci spiegano le vere motivazioni di quei maltrattamenti. Noi come saremmo se avessimo vissuto l’infanzia di Rosso Malpelo?

Come si supera il dolore per la perdita di un figlio? Come continuare a vivere con un Pianto antico che ti lega a tutti i padri e le madri che dall’inizio dei tempi e che ti lacera il cuore? Come superare il pensiero di un figlio che

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

E poi l’amore. L’amore di Renzo e Lucia, quello rivoltoso e proibito della Monaca di Monza, I ragazzi che si amano di Prévert, Alda Merini e il bisogno di sentimenti, Catullo che odia e ama, l’amore di Gibran, quello maturo di Montale in Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale…

In un mondo mutevole come il nostro, quanti si sentono inetti come i protagonisti di Una vita e di Senilità o quanti ancora sentono il bisogno di scandagliare il proprio inconscio come Zeno Cosini fa con la sua Coscienza?

Come descrivere l’obbrobrio della guerra, non quella dei grandi eventi e delle date fissate nei manuali di storia, ma quella di chi l’ha stampata nei ricordi, nel fisico, nella mente, quella di chi l’ha vissuta? Chi se non Primo Levi, Ignazio Silone, Cesare Pavese, Anna Frank, Elsa Morante e tanti altri ancora ?

Come non struggersi di fronte alle storie di Cuore di Edmondo De Amicis, come non sorridere di fronte al bugiardo Pinocchio dal naso crescente, come non ridere alle avventure di Giamburrasca, intenerirsi di fronte alle Piccole donne, immergersi nelle avventure di Salgari e di J. London o nelle tenebre del Nome della rosa?

Chi non vorrebbe perdersi nel realismo magico della vita a Macondo e ascoltare la storia della famiglia Buendia o parlare con Il maestro e Margherita per sapere poi se a Ponzio Pilato sia passato il mal di testa o se Dona Flor e i suoi due mariti vivono felici e contenti? E il Dottor Zivago, lo vogliamo dimenticare?

Leggiamo i classici, leggiamoli per noi, per trovare le parole giuste, per riconoscere i tumulti dell’animo e della mente, per scoprire la nostra natura umana, fragile e delicata, forte e determinata o mutevole che sia.

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